Sicilia nera. Riprende la caccia al petrolio


Vi riportiamo un articolo di oggi de “IL MANIFESTO” a cura di Carlo Lania, riguardante la questione delle prospezioni petrolifere al largo delle nostre coste. Un’ulteriore conferma del fatto che nessuno ha intenzione di abbassare la guardia su tale faccenda.

Sicilia nera. Riprende la caccia al petrolio

Entro la fine di aprile potrebbero iniziare le nuove trivellazioni a largo del canale di Sicilia. Associazioni e sindaci lanciano l’allarme per i rischi che le piattaforme off shore rappresentano per l’ambiente, anche a causa della natura sismica dei fondali. «Senza contare – dicono – che così si mette in ginocchio l’economia dell’isola»
È questione di mesi, poi l’orizzonte al largo delle isole Egadi potrebbe cambiare notevolmente e in peggio. Per l’isola siciliana l’anno nuovo ha infatti aperto le porte a un futuro che non si annuncia per niente benevolo e che potrebbe segnare l’inizio di una nuova caccia all’oro nero nel canale di Sicilia. Terminata, la scorsa estate, una prima fase di rilevazioni del fondale marino alla ricerca di possibili giacimenti sia di petrolio che di gas, l’inglese Northern Petroluem ha infatti annunciato ai suoi azionisti la decisione di dare avvio alle trivellazioni entro la fine del prossimo mese di aprile. E poco importa se un decreto firmato il 26 agosto del 2010 dal ministro dell’Ambiente Stefania Prestigiacomo stabilisce un limite di sicurezza di 12 miglia entro il quale è vietato eseguire le trivellazioni. Per la Northern non rappresenta un problema visto che le piattaforme verranno montate oltre questo limite: «In caso di incidente che le piattaforme siano situate a dodici o tredici miglia cambia davvero poco, e gli effetti per l’ambiente potrebbero essere comunque disastrosi», spiega Mario Di Giovanna del comitato «Stoppa la piattaforma», un cartello che riunisce sotto un’unica sigla tutte le associazioni (Greenpaeace, sezione di Sciacca della Lega navale italiana e di Italia nostra, l’AltraSciacca) impegnate contro le multinazionali del petrolio che hanno concessioni nel canale di Sicilia. Il timore, va da sé, è quello di vedere ripetersi a casa propria uno scenario simile a quello verificatosi nel golfo del Messico dopo l’esplosione di una piattaforma della Bp.
Contro l’inizio delle trivellazioni fino a oggi si è schierato un largo fronte che oltre a numerose associazioni comprende anche molti sindaci dei comuni che si affacciano sulle coste più direttamente interessate. In Sicilia attualmente sono dodici le concessioni vigenti sia per la ricerca che per l’estrazione di petrolio e riguardano anche zone di alto valore ambientale e turistico. «Si rischia pesantemente di stravolgere un’economia come quella siciliana che è fortemente legata al territorio, sia per quanto riguarda la pesca, basti pensare a Mazara del Vallo dove si trova una delle flotte di pescherecci più grandi del Mediterraneo, che il turismo», prosegue Di Giovanna.
Un fondale sismico
Paure infondate? Mica tanto. Le caratteristiche del fondale del canale di Sicilia lasciano spazio infatti a più di un timore, legato soprattutto all’esistenza di forti rischi sismici. Basti ricordare – come fa una ricerca condotta dalla sezione di Catania dell’Istituto di Geofisica e Vulcanologia -, la presenza al largo di Sciacca di una vasta area vulcanica «attiva e di grandi dimensioni», ma anche di altri vulcani sottomarini che, ricorda sempre lo studio, potrebbero «in qualsiasi momento dare luogo a eruzioni sottomarine di tipo esplosivo le quali, a loro volta, potrebbero generare tsunami» con le conseguenze immaginabili da tutti.
Ci sono, poi, i possibili danni che un’attività legata all’estrazione del petrolio potrebbe portare per la flora e la fauna marina. Secondo il Wwf le trivellazioni annunciate dalla Bp nel golfo della Sirte, a poche centinaia di miglia dalle coste siciliane, rappresenterebbero «un colpo gravissimo» per il mediterraneo. I rischi, in caso di un eventuale incidente con dispersione di petrolio, riguarderebbero in particolare cetacei, tartarughe marine, ma anche la foca monaca , il tonno rosso e il delfino. Mentre per le piante la situazione non sarebbe meno grave per il corallo rosso e la posidonia, fondamentale per prevenire l’erosione delle coste.
«Ma la cosa assurda è un’altra», denuncia Di Giovanna. «In tutto questo lo Stato italiano rischia di non guadagnarci nulla, o al massimo solo le briciole. Contrariamente a quanto avviene negli altri paesi, dove le royalties toccano anche il 90% della produzione, dal petrolio estratto in Sicilia lo Stato italiano incassa meno del 4%». «Nel 2008 – conclude Di Giovanna – a fronte di una produzione di circa 250 milioni di euro, la Sicilia ha incassato solo 643.516 euro».
Perché incassiamo così poco, si chiedono giustamente quanti si oppongono a questa nuova caccia all’oro nero. Per capirlo bisogna tener conto, che oltre alle royalties così basse, la legge fissa per le piattaforme off shore anche una franchigia di produzione di 50 mila tonnellate di petrolio annue, sotto la quale non è previsto alcun pagamento. Insomma, un vero regalo per i petrolieri.

L’ESPERTO

«Un’area piena di vulcani dei quali sappiamo poco»
ROMA

«Il Canale di Sicilia è una zona ad alta attività vulcanica e sismica. Una perforazione esplorativa difficilmente potrebbe provocare rischi di un certo peso. Diverso è il caso dello sfruttamento di eventuali riserve di idrocarburi». Gianni Lanzafame è un dirigente, da poco in pensione, dell’Istituto Nazionale di Geofisica e Vulcanologia di Catania, ed è stato a lungo coordinatore di gruppi di ricerca che, nel Canale di Sicilia, hanno studiato i vulcani sottomarini e i resti dell’eruzione che, nel 1831, creò l’effimera Isola Ferdinandea. La persona più adatta per parlare degli eventuali rischi di un’intensa attività petrolifera in questa parte del Mediterraneo meridionale.

Dottor Lanzafame, qual è la natura del fondo marino del Canale di Sicilia?
Quello che oggi è il canale in origine era il bordo nord dell’antico continente africano, prima che l’Africa e l’Europa cominciassero ad avvicinarsi, eliminando il mare che le separava, fino ad arrivare a collidere. Queste interazioni hanno prima costruito la catena appenninica e poi hanno aperto il Canale di Sicilia, che è una estesa e profonda lacerazione, realizzatasi lungo faglie profonde anche 20 chilometri lungo le quali salgono in superficie magmi profondi. Ha avuto così origine, a partire da otto milioni di anni fa, un vulcanismo molto, molto diffuso, che ha creato due isole vulcaniche, Linosa e Pantelleria, quest’ultima ancora attiva, e un numero veramente grande di apparati vulcanici sottomarini, della maggior parte dei quali sappiamo poco o addirittura niente.

Un vulcanismo che ancora oggi è attivo.
Assolutamente attivo.

Cosa potrebbe comportare?
Sono ben noti i terremoti dovuti a cause antropiche. Per fare qualche esempio nel 1989, in Australia, zona non sismica, a Newcastle, lo sfruttamento intensivo di una miniera di carbone provocò un terremoto di magnitudo 5,6, che costò 13 morti, un centinaio di feriti e danni per tre miliardi e mezzo di dollari. Nella Cina occidentale, a Sichuan, nel 2008, un terremoto terribilmente distruttivo, provocò 70 mila morti, cinque milioni di senzatetto e fu scatenato dal peso dell’acqua di un invaso artificiale. Del resto, è ben noto che l’intervento antropico può destabilizzare i delicati equilibri delle sollecitazioni che governano la crosta terrestre.

Trivellare un fondale di questo tipo è rischioso?
Il lavoro della trivella in fase di esplorazione è poco rischioso; potrebbe trovare una sacca di gas, e quindi provocare un’esplosione, oppure del magma, ma sono eventualità molto remote, perché le trivellazioni vengono guidate da accurate indagini geofisiche. Gli eventuali pericoli, secondo me, deriverebbero dal passo successivo: se trovano il petrolio e cominciano a pompare potrebbero crearsi alterazioni nel campo degli sforzi del canale, il quale è una zona sismica, quindi una porzione instabile della crosta terrestre. In un simile contesto basterebbe poco per passare dalla tensione alla rottura lungo la fraglia, cioè al terremoto.

Ci sarebbe un preavviso?
E’ il problema della previsione dei terremoti: in teoria si, in pratica no. Del resto che miniere, cave, iniezioni di acqua nel terreno, stazioni di petrolio siano destabilizzanti e provochino terremoti è ben noto. Ma esiste un rischio di altro genere, un eventuale sisma potrebbe infatti innescare uno tsunami, un vero disastro per coste densamente popolate come quelle del canale.

Gli allarmi degli ambientalisti sono giustificati?
Direi che un terremoto nel Canale di Sicilia a causa dell’estrazione di petrolio è un fenomeno possibile ma non probabile. E’ importante, però, stare molto attenti a non fare gli apprendisti stregoni.

Lascia un commento

Questo sito usa Akismet per ridurre lo spam. Scopri come i tuoi dati vengono elaborati.