Un deserto in ospedale tra vecchi medici, caos e liti


I medici sono stanchi. I pazienti rivendicano il diritto ad essere assistiti bene. Il blocco delle assunzioni desertifica gli ospedali. Chi se ne fa carico?

Domenica 15 Giugno 2014 – di Vitogol

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Alcuni giorni fa il ‘Corriere della Sera’ ha riportato che, nell’ottica di una “razionalizzazione delle risorse”, la direzione dell’ospedale Fatebenefratelli di Milano ha abolito il servizio di guardia notturna nel padiglione delle Medicine e disposto che eventuali emergenze ivi insorte siano gestite da uno dei due sanitari in servizio presso il Pronto Soccorso. Al contrario che nella canzoncina sull’Hully-Gully, la notte al Fatebenefratelli “se prima erano in tre a occuparsi dei malati, adesso sono in due a occuparsi dei malati”. Non è chiaro come costoro dovrebbero dividersi nel caso, tutt’altro che eccezionale, che più urgenze si presentino in contemporanea in punti distanti della stessa struttura. Tanto poi, dovesse accadere qualcosa, a pagare saranno per primi i pazienti e, in subordine, tutti coloro i cui nomi sono presenti sulla cartella clinica. La decisione conferma l’inarrestabile tendenza all’incremento della distanza tra chi, a Milano come a Palermo come a Roma, siede nelle stanze dei bottoni e chi, da entrambe le parti della barricata, vive la quotidianità delle corsie e degli ambulatori degli ospedali italiani.

Il blocco delle assunzioni ha causato negli ultimi anni una riduzione del personale medico del Servizio Sanitario: secondo l’appena pubblicato Annuario Statistico del Ministero della Salute 2011, il calo rispetto all’anno precedente è di ben 700 unità. Inoltre, grazie anche all’innalzamento dell’età pensionabile che ha fatto piangere la signora Fornero (e non solo), l’età media dei medici pubblici italiani è oggi stimata intorno ai 54 anni e questo trend è in ulteriore crescita. A meno che un medico ospedaliero non diventi primario o sia esentato per ragioni di salute (il ché appare plausibile a una certa età), egli dovrà prestare soccorso di notte, spesso in condizioni simili a quelle dei colleghi di Milano, quando invece potrebbe esser lui stesso ad aver bisogno di assistenza.

Il tutto in un clima di crescente litigiosità con l’utenza dovuta, da una parte, alla distanza crescente tra le aspettative e la realtà di strutture spesso inadeguate, e dall’altra al disincanto di chi, giunto al termine di una carriera faticosa, non aspetta altro che il tempo voli per lasciare l’ospedale e tornarsene a casa. Per quel giorno o per sempre. La situazione di grave disagio della categoria è espressa dai risultati di una recente indagine sui 1.064 Cardiologi ospedalieri italiani riportata da ADN Kronos: lo studio indica che oltre un terzo degli specialisti accusa perdita di entusiasmo per il lavoro, frustrazione e difficoltà nel separare vita lavorativa e vita privata. Inoltre, circa il 70 % accusa gravi difficoltà a causa di problemi organizzativi e circa il 50% teme il rischio di problemi medico legali.

Sembrerebbe solo una delle tante rivendicazioni di una categoria non certo tra le più disagiate del disastrato panorama del mondo del lavoro in Italia. Ed invece, a supporto delle rimostranze, sono di recente intervenute le Autorità della Comunità Europea. Dopo una serie di ammonizioni e nonostante le ripetute rassicurazioni del ministro Lorenzin, il 20 febbraio scorso la Commissione Europea ha deferito l’Italia alla Corte di Giustizia per il mancato rispetto della normativa nei servizi di sanità pubblica. La Direttiva sull’orario di lavoro indica che esso non può eccedere le 48 ore settimanali medie, compresi gli straordinari, e che si deve fruire di un minimo di 11 ore ininterrotte di riposo al giorno e di un ulteriore riposo settimanale ininterrotto di 24 ore. E ciò non solo a garanzia del lavoratore, ma anche di un legittimo diritto dell’utente che richiede di essere assistito da personale in piena efficienza psico-fisica. Il che a quell’età è ancor più arduo.

C’è qualcuno oggi in Italia che si occupi del problema dell’invecchiamento del personale assistenziale del Servizio Sanitario? Quale Autorità sanitaria, quale sindacato, quale ordine professionale, quale difensore civico? Che tenti di prevenire il gentile omaggio di molti eccellenti giovani medici, la cui formazione costa alla collettività nazionale, agli altri Paesi europei? Che si curi, più che della correttezza formale delle cartelle cliniche o delle prescrizioni degli anti-acidi, della reale riduzione del rischio clinico che passa anche attraverso la garanzia di idonee condizioni di lavoro ai suoi attori di prima linea? Ed infine una domanda chiave che prescinde dai problemi della mia categoria, investendole tutte. Perché in fondo, prima o poi, tutti abbiamo bisogno di un ospedale. La domanda è: in questa Italia in cui un giovane su due è disoccupato ed assodato che non si può vivere senza lavorare, c’è qualcuno capace di cogliere la differenza che intercorre tra il lavorare per vivere e il vivere per lavorare?

Fonte: livesicilia.it

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