SESSANT’ANNI FA USCIVA AL CINEMA IL FILM DI PIETRO GERMI “IN NOME DELLA LEGGE”.


Pubblichiamo di seguito il testo integrale dell’articolo “Sessant’anni fa usciva al cinema il film di Pietro Germi In nome della legge” scritto da Lorenzo Catania e pubblicato “in versione ridotta” da “La Repubblica-Palermo” di ieri, 9 ottobre, con il titolo “Quando la mafia agiva In nome della legge“. Ringraziamo l’autore per averci fornito la “versione originale”. Buona lettura:

Dopo avere ammirato il talento mostrato da Pietro Germi nel dirigere alcune scene del film “Gioventù perduta” (1947), il produttore Luigi Rovere, che lavora per la Lux, affida al regista genovese il compito di portare sullo schermo il romanzo del magistrato palermitano Giuseppe Guido Lo Schiavo, “Piccola pretura”, che diventerà “In nome della legge”. Sceneggiato dallo stesso regista con Federico Fellini, Mario Monicelli, Tullio Pinelli e Giuseppe Mangione e girato a Sciacca e dintorni nell’estate del ‘48, il film racconta le disavventure di un giovane pretore settentrionale (Massimo Girotti), che nel paesino siciliano di Capodarso entra in conflitto con un potente barone latifondista (Camillo Mastrocinque) e si scontra con l’omertà della popolazione. Non scoraggiato dall’ambiente ostile che lo circonda, l’intransigente magistrato riesce a vincere la paura della gente e ne conquista la stima insieme a quella di un anziano capomafia (Charles Vanel), che finisce pure con l’aiutarlo. Proiettato nelle sale cinematografiche nella primavera del 1949, “In nome della legge” riscuote un successo superiore a ogni previsione (incassa 401 milioni, quando il prezzo medio del biglietto si aggira sulle 90 lire, e conquista tre nastri d’argento, nella stagione che vede l’agguerrita concorrenza di “Ladri di biciclette” ) e procura subito prestigio e notorietà al regista.

Il 21 aprile di quell’anno, infatti, Carlo Muscetta comunica a Cesare Pavese: “Un agente di una nota casa cinematografica si è rivolto a me per chiedere l’opzione del soggetto di “Paesi tuoi”. Il film sarebbe affidato a Germi, il regista di “In nome della legge”. Se è cosi dovresti esserne molto contento.[…] Per conto mio sarò ben lieto che la cosa possa avere successo”. Mentre Carlo Levi, che ha quasi ultimato la stesura de “L’Orologio” ed è determinato a condurre in porto il progetto cinematografico del “Cristo si è fermato a Eboli”, il 14 settembre del 1949 scrive a Linuccia Saba: “Domani avrò un colloquio con Germi. Tu che cosa ne dici? Di combinare con Germi? Vedrò dopo avergli parlato molto chiaramente”.

Ma “In nome della legge” provoca anche molte polemiche e opinioni contrastanti. Se il giovane pretore che osa sfidare la mafia e lotta per la giustizia contro l’incomprensione e l’indifferenza degli abitanti di Capodarso è – come scrisse Ennio Flaiano assistendo a una proiezione pubblica culminata con applausi scroscianti – “un personaggio eroico che il pubblico adotta con entusiasmo”, in Sicilia molti la pensano diversamente e reputano il film lesivo per l’immagine dell’isola. A Sciacca, ad esempio, la sera della prima, quando comincia a scorrere la pellicola, la parola mafia pronunciata per la prima volta e poi l’arresto di un boss “in nome della legge” provocano presso qualche spettatore comportamenti e atteggiamenti non proprio comprensivi e complici nei confronti del rappresentante dello stato. Bernardo Indelicato, giovanissimo pescatore quando viene scelto per interpretare il ruolo di Paolino, intervistato qualche anno fa, dirà che “a Castelvetrano la mafia aveva proibito la visione del film”. Non solo il pubblico, ma anche la critica si divide. Secondo alcuni il film del genovese Germi, con la sua concezione quasi romantica della mafia e il suo ambiguo finale che vede il magistrato stringere la mano al capo di una cosca, è poco incisivo sul piano dell’impegno sociale e non è del tutto critico verso la mafia. Al contrario, in “In nome della legge” la mafia arcaica viene esaltata come unica possibilità di vera giustizia nell’isola.

Infatti, affermano i detrattori del regista, a Capodarso conta solo l’autorità mafiosa di massaro Turi
Passalacqua, al quale tutti i notabili del paese, compreso il viscido barone Lo Vasto, devono obbedienza. Non a caso quando il pretore prima sfugge a un agguato e poi, deciso a lasciare il paese, torna per arrestare l’omicida del suo giovane amico e aiutante Paolino, sarà il capomafia che gli concede di applicare la legge dello stato, scaricando il suo uomo colpevole. Glauco Viazzi, pur riscontrando “difetti e debolezze” nell’opera di Germi, sulle pagine della rivista “Cinema” difende a spada tratta il regista e cerca di rintuzzare certe stroncature su “In nome della legge”, che gli appaiono violente quanto astratte: “Che un film oggi dica: in Sicilia c’è la miseria, c’è la mafia, ci sono i baroni, è già molto. Esso si pone automaticamente nella tendenza realistica, spontaneamente si colloca tra i film d’avanguardia, rappresenta un contributo all’arte cinematografica italiana”. E in effetti “In nome della legge” come film sulla mafia significava – nel clima storico-sociale e politico del dopoguerra, che registra l’assassinio del sindacalista Accursio Miraglia, avvenuto proprio a Sciacca due anni prima, e le imprese del bandito Salvatore Giuliano – film “contro la mafia”. Detto questo, occorre aggiungere che il film, attraverso la struttura narrativa del western spettacolare e dei suoi topoi, più che un’analisi sociopolitica approfondita del fenomeno mafioso, allora improbabile anche perché poco conosciuto, voleva soprattutto portare all’attenzione del vasto pubblico degli spettatori e dei governanti di allora la condizione di certe estreme contrade del Sud, travagliate dalla povertà e dalla delinquenza, dalla mancanza di lavoro e dall’assenza di una vera democrazia ma anche le ambiguità che gravavano sulla Repubblica italiana appena nata e già fragile, messe in risalto dalla figura del pretore, che spesso si muove come un eroe solitario sullo sfondo della campagna siciliana, fotografata in maniera stupenda da Leonida Barboni. Non c’è da meravigliarsi perciò se, in sintonia con l’atteggiamento di certa intellettualità ottonovecentesca (quella, per intenderci, che va da Francesco De Sanctis a Norberto Bobbio), Germi utilizza il cinema come mezzo per svolgere, fra l’altro, una funzione di direzione etica e di coscienza critica della società, per dialogare con il pubblico e le classi dirigenti del nostro Paese.
Assai significative risultano, in questo senso, alcune considerazioni del regista espresse nell’articolo “Difesa del cinema italiano”, apparso su “Rinascita” nel marzo del 1949, cioè dopo la fine delle riprese di “In nome della legge”, che aiutano a cogliere e a comprendere meglio la coerenza e la continuità dell’ impegno civile di un maestro del cinema, che dall’utopia del neorealismo eretico approda alla stagione amara, crudele e grottesca della commedia all’italiana: “…il cinema aiuta gli uomini a vedersi, a conoscersi. E il cinema è perciò indispensabile agli italiani: i quali se soffrono di un male cronico, soffrono proprio di questo: di non aver mai imparato a sapersi vedere con concretezza, a sapersi giudicare. I registi italiani hanno la possibilità di contribuire […] a dare inizio a questa importante, decisiva opera di autocritica morale, a questo esame di coscienza che sarà decisivo per far uscire tutti noi italiani da quello stato di puerile immaturità psicologica cui spesso ci abbandoniamo, perdendo il contorno preciso dei problemi, rinunciando a conoscere la realtà, a combattere”.

Lorenzo Catania

Lascia un commento

Questo sito usa Akismet per ridurre lo spam. Scopri come i tuoi dati vengono elaborati.