È solo nero inchiostro, per ora. Ma è questione di tempo perché i petrolieri ronzano con insistenza sul Canale di Sicilia, dove tre piattaforme posizionate lungo le coste estraggono il 62% di tutto il greggio ricavato dai fondali italiani. Si capisce, allora, che abbiano tutta l’intenzione di popolare di trivelle i tratti di mare rimasti scoperti, facendosi largo tra aree protette e limiti autorizzativi. L’elenco delle istanze di prospezione, ricerca e coltivazione depositate presso il Ministero dello Sviluppo comprende 15 nuovi pozzi, cinque permessi di ricerca in vigore dal tratto di costa di fronte a Licata a quello di fronte a Pantelleria e dieci richieste di permesso per altri 4mila kmq: uno in fase decisoria a sud di Capo Passero, 8 in corso di valutazione ambientale, uno nel tratto di mare tra Marsala e Mazara del Vallo in fase iniziale dell’iter autorizzativo.
Tutto, apparentemente, è sospeso, incagliato nelle burocrazie ministeriali. Tutto potrebbe precipitare, però, se alle aperture che arrivano da Roma sullo sblocco dei titoli minerari si aggiungesse un atteggiamento favorevole della Regione. E si capisce, allora, anche il clamore suscitato dalla notizia di un accordo da 2,4 miliardi di euro per il “rilancio degli investimenti” siglato ai primi di giugno tra i petrolieri e il presidente Crocetta che ha mandato su tutte le furie gli ambientalisti.
Di Crocetta, dicono, ormai ce ne sono due. Il primo è quello green che, durante le primarie per la guida di Palazzo D’Orleans, aveva aderito alla campagna “U mari nun si spirtusa” promossa da Greenpeace firmando anche un impegno scritto per un mare libero da trivelle grazie alla creazione di una zona di Protezione Speciale (ZPE) nel Canale di Sicilia. Il secondo è quello oil che non perde occasione per fare favori ai petrolieri. Ad accusarlo è chi quel documento d’impegno lo possiede in originale, perché s’era preso la briga di farlo sottoscrivere a tutti i candidati del centrosinistra.
L’ingegnere Mario Di Giovanna, portavoce del comitato “Stoppa la piattaforma”, ricostruisce così il voltafaccia. Dopo le elezioni regionali, a seguito di alcune richieste di permesso di ricerca, rianimate dalla sanatoria del 2013 al limite delle 12 miglia, il Comitato scrive alla Regione per avere un incontro urgente con il neopresidente in cui dar seguito all’impegno all’opposizione formale ai permessi e a istituire un tavolo di concertazione per fermare ogni forma di sfruttamento industriale del Canale, creando l’area di protezione ambientale. “Le condizioni c’erano tutte”,spiega Di Giovanna, ricordando le due audizioni, fortemente volute da Greenpeace, cui erano presenti rappresentanti del Governo, Crocetta e i suoi assessori. Ma il tavolo tecnico non si insedierà mai e il direttore delle campagne di Greenpeace, Alessandro Giannì, staccherà una serie di biglietti aerei a vuoto, vedendosi all’ultimo momento rimandare gli appuntamenti. “Anche i tentativi di contattare gli uffici regionali per far controfirmare le opposizioni ai permessi di ricerca vanno a vuoto, seguiti da un cordiale silenzio”, racconta Di Giovanna. La svolta oil è accompagnata dal curioso ballo delle royalties, le tasse che le società petrolifere pagano sulle estrazioni. Su proposta del Comitato, fatta propria dal M5S, nel 2013 il governatore le aveva raddoppiate dal 10 al 20%. Un anno dopo cambierà idea: accartocciato il “modello Sicilia”, i grillini all’opposizione, a gennaio 2014 fa approvare alla sua maggioranza un taglio dal 20 al 13%. A bloccare lo “sconto” sarà poi il Commissario dello Stato, contestando l’illogicità di un provvedimento che pretende di ricavare maggiori oneri fiscali da una riduzione delle tasse . C’è chi arriva a mettere in dubbio la stessa autonomia del presidente, ricordando che Crocetta è stato un dipendente dell’Eni. Petrolio nelle vene, conflitto d’interessi rimasto latente ma fisiologico.
Tratto da Il Fatto Quotidiano N. 185 del 7 luglio 2014. (www.ilfattoquotidiano.it)