Dopo la sentenza a favore del Comune di Pineto la Suprema Corte dà ragione anche a quello di Termoli che chiede a Edison di versare 15 milioni. Una battaglia lunga quasi vent’anni e senza esclusione di colpi: pur di non pagare le società contestano l’ubicazione delle piattaforme, la loro non accatastabilità. Il governo sta tentando il colpo di spugna per gli anni a venire.
Di Thomas Mackinson | 7 ottobre 2016
Ici, Imu e petrolio. Sì, le compagnie devono pagare. La Cassazione si è espressa ancora – e non una ma due volte – a favore dell’imposizione fiscale sulle piattaforme, questione bloccata da un infinito contenzioso cui sono appesi dai 100 ai 200 milioni di euro l’anno di gettito per una decina di comuni litoranei che convivono con le trivelle lungo le coste. La Suprema Corte l’aveva già chiarito a febbraio, dirimendo quello tra Eni e il comune di Pinetoche si trascinava dal 1993, dando ragione a quest’ultimo. Il 5 luglio, ma la sentenza è stata appena depositata, ha confermato e rafforzato quella decisione a favore del Comune di Termoli contro Edison che si trascinava ormai dal 1997 per un valore di circa 15 milioni di euro (circa un milione e mezzo per ciascuna annualità nel periodo compreso dal 1999 al 2009, comprensiva di sanzioni che la Cassazione ha escluso ). Oggetto del contendere, stavolta, gli avvisi di accertamento Ici elevati tra il 2007/2010 e relative sanzioni. Per quelle pretese Edison aveva fatto ricorso alla commissione tributaria di Campobasso che aveva reso due sentenze divergenti, l’una di accoglimento del ricorso e l’altra di rigetto pur sulla proposizione delle medesime questioni ed argomentazioni. Ora la Cassazione sembra spazzar via ogni perplessità.
La lettura della sentenza dà l’idea del paradosso: un Paese che impone livelli di tassazione insopportabili per lavoro e impresa ha impiegato vent’anni perché le società del petrolio pagassero le loro. L’impresa è stata così lunga perché la materia è complessa e la raffica di eccezioni sollevate hanno finito per scomodare il diritto internazionale (la convenzione Convenzione delle Nazioni Unite sul diritto del mare), quello civilistico (la valutazione dell’intero complesso opificio posto in parte sul mare ed in parte sulla terra-ferma; la qualificazione della piattaforma), quello tributario (la quantificazione della base imponibile in assenza di accatastamento e della imposta che ne deriva), catastale (individuazione della categoria di appartenenza) e societario (la società concessionaria e quella proprietaria dell’immobile) nonché la stessa disciplina delle concessioni. A seguirne alcune viene il dubbio che le compagnie abbiano resistito proprio puntando sul fatto che piccole amministrazioni avrebbero faticato a farsi carico di lunghi e costosi contenziosi contro i colossi.
Anche l’ultima sentenza si ritrova a dirimere questioni, che rimanda al giudice di merito, a tratti surreali: dove sta la trivella? Una delle argomentazioni per sottrarsi all’imposizione da parte di Edison, come detto, era proprio questa: il Comune non ha dato prova fino in fondo che l’impianto fosse dislocato proprio nelle sue acque territoriali. Non bastavano le concessioni della capitaneria di porto e le carte marittime. Posto che l’ubicazione non cambia con la marea, i giudici respingono la motivazione del ricorso e rimando la definizione di questo aspetto al giudice di merito che potrà agevolmente superarla applicando il requisito di maggior vicinanza secondo il criterio geometrico della linea retta.
Stesso discorso per la questione dell’accatastamento. Non essendo un immobile la piattaforma non ce l’ha. E non avendolo, dicono le società, non è possibile determinare la rendita sulla quale quale calcolare il “quantum” da versare ai comuni. Anche qui l’obiezione viene sollevata come si farebbe per qualsiasi immobile artigiano senza una specifica destinazione d’uso, ovvero tramite le scritture contabili. In caso da quelle non sia possibile stabilire la rendita lo si potrà fare con i costi presunti per la costruzione.
E’ finita? Ni, nel senso che per il pregresso la Cassazione ora ha tolto ogni alibi e non c’è rischio di prescrizione. Sul futuro qualche incognita invece resta, atteso che la Legge di stabilità 2016 ha riformulato i criteri di rendita catastale ai fini dell’imposizione Imu e Tasi facendo riferimento al catasto edilizio urbano che non contempla fabbricati ubicati in mare né tipologie di immobili assimilabili alle piattaforme.
Assomineraria ha colto la palla al balzo per chiedere chiarimenti, sondando forse la possibilità di trovare un nuovo appiglio. Il Dipartimento delle Finanze a giugno ha risposto con una circolare che chiarisce alcuni punti, citando e ribadendo quanto stabilito dalla Cassazione, ma precisando anche che “per applicare criteri di natura contabile occorre uno specifico intervento normativo atto a consentire non solo il censimento delle costruzioni site nelle acque territoriali, anche con riferimento alla relativa delimitazione, georeferenziazione e riferibilità ad uno specifico comune ma anche l’ampliamento del presupposto impositivo di Imu e Tasi”.
Su tale ultimo profilo l’avvocato Ferdinando D’Amario che cura il contenzioso dei vari Comuni, ha specificato che nelle citate sentenze (n. 19519/16 e n. 19510) la Cassazione ha escluso che “le conclusioni raggiunte possano essere inficiate dagli elementi di novità che rientranti nella funzione di studio, opinione e dibattito applicativo della normativa, ovvero di indirizzo amministrativo interno, sono inidonei ad incidere sulla disciplina primaria di riferimento e regolamentazione del tributo”.
Sempre secondo il legale “la risoluzione scivola su considerazioni non solo del tutto incongruenti con l’oggetto della richiesta della Associazione mineraria, volta ad acquisire solamente un parere sui nuovi criteri di calcolo per l’individuazione della rendita catastale dei fabbricati a seguito dell’entrata in vigore della Legge di stabilità 2016, ma presenta una deviazione di ritenuta non imponibilità in ragione della allocazione a mare e svolge considerazioni tecniche di competenza dell’Ufficio del Territorio e comunque di per sé erronee”. Insomma, per il futuro la partita è ancora aperta.
Soddisfazione esprime il M5S che ha fatto una lunga battaglia per il riconoscimento dell’imponibilità delle piattaforme. “La sentenza – dice il senatore Gianni Girotto – conferma che nell’approfondimento della normativa avevamo visto bene, adesso vedremo come la nuova legge di stabilità andrà a modificare per il futuro il pagamento e proveremo a intervenire anche lì perché anche le piattaforme petrolifere abbiano una giusta imposizione, come le altre attività produttive”.
Fonte: ilfattoquotidiano.it