Acqua pubblica, a due anni dal referendum poco (o nulla) è cambiato


Nella consultazione popolare del giugno 2011 il 54% degli elettori ha votato contro la privatizzazione del sistema idrico. Da allora ad oggi la situazione è praticamente la stessa, con qualche eccezione come Napoli e Reggio Emilia. I comitati: “Ci siamo trasformati in guardiani. Continuiamo la lotta”

di Redazione Il Fatto Quotidiano | 3 luglio 2013

Si fa presto a dire acqua pubblica. Non sono bastati 26 milioni di ‘Sì’ per trasformare il sistema di gestione del servizio idrico italiano. Oggi, a più di due anni dal referendum del 12 e 13 giugno 2011, dove il 54% degli elettori si disse contrario a qualunque forma di privatizzazione, le tariffe non sono cambiate e non esiste una norma post-voto. L’Italia, da Nord a Sud, appare come un mosaico di situazioni differenti. Ci sono città, tra cui Ferrara, che hanno ridotto la partecipazione pubblica nelle multiutility, e Regioni, come la Toscana, che davanti alle richieste dei comitati hanno chiuso la porta al dialogo. Ma anche comuni come Reggio Emilia, Napoli e Palermo, che invece hanno aperto la strada alla ri-pubblicizzazione delle risorse idriche. Veri e propri “casi” diventati esempi per altre amministrazioni, a partire da quella appena nata di Roma, per arrivare fino a quella di Torino.

LA BATTAGLIA DELLE TARIFFE

La vera guerra dei comitati per l’acqua pubblica è iniziata una volta chiuse le urne. “Ci siamo trasformati nei custodi del voto, in continua lotta contro l’indifferenza e la mancanza di volontà delle istituzioni”, dice Mariangela Rosolen del gruppo di Torino. Ed è sulle tariffe che si sta combattendo la battaglia principale. Due anni fa, gli elettori avevano votato per l’abolizione della “adeguata remunerazione del capitale investito dai gestori”. Dunque, dopo il referendum, i cittadini, pagando la bolletta dell’acqua non avrebbero più dovuto foraggiare i profitti delle aziende. Tutto liscio quindi? Non proprio. Alla fine del 2012 l’Aeeg, l’Autorità per l’energia elettrica e il gas, che si occupa di determinare i criteri per calcolare le tariffe del servizio idrico, ha inserito una nuova voce: il “rimborso degli oneri finanziari”. E secondo il Forum dei movimenti per l’acqua questa formula non è altro che un modo per continuare a garantire gli utili ai gestori. In altre parole, cambierebbe la forma, ma non la sostanza.

Per questo è già partito il ricorso al Tar della Lombardia, regione sede dell’Aeeg. La quale a sua volta respinge ogni accusa. “Il metodo tariffario transitorio definito dall’Autorità si basa sul cosiddetto ‘full cost recovery‘, ovvero sul criterio europeo del pieno riconoscimento dei costi. Perché se vogliamo che l’acqua sia effettivamente un bene pubblico gratuito, di buona qualità e disponibile a tutti, i costi devono essere coperti. A cominciare da quelli molto rilevanti per gli investimenti e per la tutela ambientale”, spiega Cristina Corazza, direttore comunicazione dell’Aeeg. Intanto, in attesa che gli enti locali approvino il nuovo modello (molti comuni lo hanno già bocciato) e che sulla questione si esprima il tribunale, sulla bolletta continua a pesare la remunerazione del capitale.

ROMA E TORINO AL LAVORO PER RI-PUBBLICIZZARE IL SERVIZIO IDRICO

Ora gli occhi sono puntati su Roma. Dopo un lungo braccio di ferro con l’ex sindaco Gianni Alemanno, fatto di sit-in dentro il Campidoglio per protestare contro la vendita delle quote di Acea da parte del Comune, la speranza dei comitati è che la musica cambi con la gestione di Ignazio Marino. Le premesse ci sono tutte. “Abbiamo già fatto un primo incontro in cui era presente Roberto Tricarico, consigliere comunale del Pd”, racconta Simona Savini, del gruppo per l’Acqua pubblica di Roma. “E altri sono in programma nelle prossime settimane. Il dialogo è aperto”. A Torino, invece, qualche risultato gli attivisti del comitato l’hanno già portato a casa. A marzo infatti il consiglio comunale, non senza qualche mal di pancia, ha dato l’ok alla trasformazione della Smat spa, azienda al 100% a capitale pubblico che serve acqua in 283 comuni della provincia, in un’azienda di diritto pubblico. La partita però è ancora tutta da giocare. “Ora la questione è passata alle commissioni, che da mesi stanno discutendo una serie infinita di punti. Cercano di sfinirci, ma noi non molliamo”, ribadisce Rosolen.

REFERENDUM IGNORATO IN TOSCANA E IN EMILIA

Per i comitati va peggio in Toscana: il dialogo con la Regione non si è mai aperto, nonostante le pressioni dei referendari. “Abbiamo chiesto al presidente Enrico Rossi di aprire un tavolo di lavoro sulla ri-pubblicizzazione del servizio idrico. Non ci ha mai ricevuto”, spiega Colin Du Liege, secondo cui “la politica si sta muovendo pochissimo”. Del resto Matteo Renzi non ha mai nascosto di essere contrario all’esclusione dei privati dalla gestione del servizio idrico. E a Firenze infatti nulla è cambiato. Anche a Bologna, città roccaforte del Pd, l’amministrazione non sta andando nella direzione indicata dagli elettori con il referendum. Lo scorso inverno il consiglio comunale ha approvato la fusione di Hera, la multiutility emiliano-romagnola che si occupa di gas, rifiuti, energia e acqua, con la veneta Acegas-Aps, un colosso con affari anche in Bulgaria e in Serbia. L’operazione oltre a spaccare la maggioranza, con Sel e Idv contrari, ha scatenato la protesta dei comitati, che la considerano “un ulteriore passo verso la privatizzazione”. Il timore, espresso anche da alcuni malpancisti del Pd come il consigliere Benedetto Zacchiroli, è che aumentando le dimensioni della società diminuiscano i pacchetti azionari dei singoli comuni (da 52% a 41%), riducendo quindi anche il potere decisionale dei soci pubblici. Anche pochi chilometri più in là, a Ferrara, l’esito del referendum è rimasto lettera morta. A inizio giugno il comune ha dato il via libera alla vendita di 5 milioni di azioni di Hera, passando così da una quota del 2,28% a una pari a 1,8%. A Milano si è discusso per mesi della creazione di una multiutility del nord, risultato della fusione tra Iren, Hera e A2a. Un progetto che oggi, dopo una pioggia di petizioni e appelli contrari, sembra essersi arenato. Di fatto, però, dopo il referendum, nel capoluogo lombardo non si è andati oltre la modifica dello statuto comunale, dove a ottobre è stato inserito il riconoscimento dell’acqua come bene comune. Per ora questa è rimasta la principale vittoria dei comitati.

DOVE L’ACQUA PUBBLICA E’ GIA’ REALTA’: I CASI DI NAPOLI E REGGIO EMILIA

Nella pratica, per le tasche degli italiani poco è cambiato e poco cambierà. Per ora. Perché qualcosa si sta muovendo. Negli ultimi mesi infatti diverse amministrazioni locali hanno cominciato a ragionare su come ri-pubblicizzare il servizio idrico. Piccole gocce nel mare, è il caso di dirlo, che non produrranno effetti visibili se non nel lungo periodo. Ma che indicano una strada verso un modello diverso. A fare da apripista è stata Napoli. Pochi mesi dopo il referendum, il consiglio comunale ha dato l’ok alla trasformazione dell’azienda Arin Spa in un ente di diritto pubblico, ‘Acqua bene comune Napoli’, con il compito di gestire le risorse idriche. Pochi mesi dopo Imperia ha seguito l’esempio. Stessa scena anche a Palermo, Forlì, Savona, Vicenza, Varese e Piacenza. Fino ad arrivare nella Reggio Emilia guidata da Graziano Delrio, dove nel dicembre del 2012 i comitati per l’acqua bene comune hanno ottenuto un risultato storico: il consiglio comunale ha approvato la mozione popolare che prevede di affidare il servizio idrico a un ente di diritto pubblico, mettendo di fatto la parola fine alla gestione da parte della multiutility Iren.

IN PARLAMENTO L’INTERGRUPPO PER L’ACQUA BENE COMUNE

Di sicuro la macchina legislativa ha fatto fatica a mettersi in moto e l’inerzia dei partiti non ha aiutato. “Dopo il referendum, sia a livello locale, sia a livello di amministrazione centrale, si dovevano studiare delle ipotesi per riportare il servizio idrico sotto il controllo pubblico. E invece questo non è mai avvenuto”, denuncia Luca Martinelli, giornalista di Altreconomia, da sempre impegnato nella battaglia per l’acqua pubblica. In effetti, su questo tema nei palazzi romani non si è fatto granché. Solo per costituire un intergruppo di lavoro ci sono voluti due anni. Inaugurato nel secondo compleanno del referendum, il gruppo è composto da Sel, Movimento 5 stelle e alcuni esponenti del Pd. Tra gli obiettivi, spiega la deputata del M5s Federica Daga, ci sono la “discussione della legge d’iniziativa popolare del 2007, e la presentazione di una mozione per restituire al ministero dell’Ambiente il potere di regolare le tariffe, togliendolo all’Aeeg”.

di David Marceddu e Giulia Zaccariello

Fonte: ilfattoquotidiano.it

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